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Yvon Chouinard - fondatore di Patagonia

Perché essere Patagonia non era abbastanza

Nel mondo della sostenibilità è in corso in questi giorni una piccola grande rivoluzione a seguito della decisione del fondatore di Patagonia che ha ceduto l'azienda a un trust no profit con il mandato di investire i profitti del business in progetti di sostenibilità.

In tanti festeggiano questo gesto fuori dagli schemi come la prova che il business può essere al servizio della causa comune. Altri invece criticano la decisione perché ha portato ad un grosso sgravio fiscale nella cessione dell'intero patrimonio di 3 miliardi di dollari a una organizzazione no profit. Anche l'assetto finanziario è oggetto di critiche: non sarà un danno per la società il fatto di essere proprietà di un soggetto che non ha l'obiettivo di massimizzare i profitti?

Chouinard come già in passato sorprende tutti e ridefinisce il modo di fare impresa ma per dare un contesto a questa decisione la domanda più interessante è: perché non era abbastanza essere Patagonia, B Corp e leader della sostenibilità nel fashion? Cosa ci dice questa decisione rispetto al modello di sostenibilità dei consumi basato sull'acquisto green e sul purpose marketing?

Quando il green non è abbastanza

"Stavamo facendo del nostro meglio per combattere la crisi ambientale, ma purtroppo non era sufficiente. Dovevamo trovare delle alternative che ci permettessero di destinare più risorse alla lotta contro questa crisi, mantenendo però intatti i valori dell'azienda." 

Le motivazioni che Chouinard esplicita nella sua lettera sono quelle che leggete qui sopra: destinare più risorse alla lotta alla crisi climatica. Il fondatore di Patagonia ci sta dicendo quindi che reinvestire profitti nell'azienda non è il modo migliore per mitigare la crisi climatica. La continuità della mission di Patagonia verrà salvaguardata e si continuerà a investire nell'azienda per quanto necessario ma il focus si sposta fuori dall'organizzazione, verso soluzioni che evidentemente saranno più efficienti economicamente e si spera più efficaci.

Questa non è una novità assoluta, è noto che ci sono settori cosiddetti "hard to abate" in cui abbattere le emissioni costa molto perché ancora non ci sono soluzioni tecnologiche adeguate. La sorpresa però è grande nel vedere che anche il fashion, o meglio il super green fashion di Patagonia non regge il confronto con altri settori e altre modalità di mitigazione della crisi climatica.

Per quanto il purpose di un'azienda sia integrato nel proprio business ci sono modi migliori di contribuire all'obiettivo generale della transizione ecologica e prenderli in considerazione significa usare le risorse economiche in un modo più efficiente.

Questa sembra una prima lezione che il nuovo corso di Patagonia lascia intendere. Del resto Chouinard lo dice da sempre che non esiste azienda sostenibile in un sistema produttivo che non lo è. Il nuovo assetto proprietario pare proprio una presa di coscienza di questo limite, un modo per integrare nella dinamica economica l'appartenenza dell'impresa a un contesto più ampio dove si gioca la vera partita della sostenibilità: la biosfera. "Il pianeta è il nostro unico azionista" non è più un claim del solito green marketing ma descrive l'assetto societario segnando un passaggio ulteriore: dal purpose marketing al purpose business.

La necessità di questa transizione va a confermare con i fatti i limiti del purpose marketing e di un modello basato sull'acquisto green rispetto alle esigenze di mitigazione delle emissioni che la scienza e l'attualità ci indicano con drammatica evidenza.

Potremmo sintetizzare così: il green marketing o il purpose non sono abbastanza per generare un cambiamento sostenibile ma sono metodi efficienti nel generare profitti che si potranno reinvestire in altre iniziative più concrete, efficienti ed efficaci. Questo ad oggi pare essere il modo migliore per conciliare business e sostenibilità.

Non è certo una condanna o una sconfessione del percorso fatto sinora da Patagonia. C'è bisogno di entrambi, il green fashion e la visione sistemica che abbraccia la biosfera. E Patagonia gioca da oggi su due tavoli: da una parte reinveste quanto necessario nello sviluppo dell'azienda verso la neutralità climatica e l'innovazione sostenibile; dall'altra investe i suoi profitti di circa $100 milioni all'anno in altri settori dove questa cifra tutto sommato contenuta potrà avere un maggiore impatto.

In questa convivenza con altre modalità di azione sostenibile il modello green ne esce modificato, anche perché sino ad oggi si è proposto come la strada maestra, il modo migliore per salvare il pianeta per le aziende e per i consumatori. Chouinard invece ci dice: quanto possiamo fare all'interno della nostra azienda non è abbastanza e non è il modo migliore per contrastare la crisi climatica.

Perché il green non è abbastanza

Il modello green non è abbastanza perché all'enfasi dei claim che vogliono salvare il pianeta si contrappone una scarsissima riduzione delle emissioni. In casa nostra ad esempio, per quel 32% di prodotti green che gli italiani hanno messo nel carrello nel 2021 (dati Osservatorio Immagino - GS1) la riduzione di impatto è così evanescente da non essere misurata né rilevabile indirettamente. Il contributo più significativo che si può misurare è quello del riciclo degli imballaggi che CONAI quantifica in 4 milioni di tonnellate di CO2eq risparmiate e che solo in parte è ascrivibile ai prodotti che presentano green claim sulla confezione. Rimane un ottimo risultato per i consorzi del riciclo ma molto limitato rispetto all'impronta dei prodotti stessi e con ristretti margini di crescita visto che siamo già al 73% dell'imballaggio avviato al riciclo (dati Report Sostenibilità CONAI 2021). La stessa circolarità degli imballaggi non è abbastanza dunque per spostare significativamente l'impatto dei prodotti.

Perché il green non è il migliore

Non è il modo migliore perché non è la soluzione più efficiente dal punto di vista economico, e non ha le potenzialità per portare a emissioni e impatto zero un'azienda, nemmeno un'azienda come Patagonia che nel suo sito in maniera trasparente ci racconta delle difficoltà e della necessità di fare sistema per innovare.

Per l'impatto nel migliore dei casi - ad esempio nel caso di Patagonia - possiamo riscontrare un bilancio positivo tra esternalità negative e positive (tipico delle società benefit) che è già un ottimo punto di partenza. Ma si fa fatica anche solo a calcolare questi impatti in modo attendibile e trasparente ( lo ricorda anche Assobenefit): come valutare ad esempio le microplastiche da lavaggio delle fibre sintetiche che sono una delle materie prime più usate anche da Patagonia?

Per le emissioni bisogna dire che Patagonia raggiungerà il Net Zero già nel 2025, ovviamente compensando le emissioni grazie a progetti di sequestro della CO2. In sostanza pagherà per abbattere le proprie emissioni da cui ne discende che non può azzerarle nei processi produttivi e nel ciclo di vita del prodotto, cosa che -come suggerisce questo report di McKinsey del 2020 - in gran parte dipende dalla filiera e dall'energia.

Non è il modo migliore perché non si fa sistema tra le aziende del settore per innovare in modo significativo i processi produttivi, si è quindi costretti a investire solo quello che in breve tempo i consumatori potranno ripagare acquistando i prodotti green, e nel frattempo la concorrenza sleale del greenwashing erode la credibilità anche delle aziende autenticamente impegnate. Interessante in questo senso una ricerca di GFK in collaborazione con Thomas Kolster che registra l'efficacia sempre minore degli annunci che fanno leva sul purpose.

Difficile in questo contesto che gli investimenti green nelle filiere del largo consumo siano efficienti in termini di mitigazione climatica. Cosa diversa per altri settori, come ad esempio le energie rinnovabili, ma si tratta appunto di altri settori che hanno altre dinamiche da approfondire in separata sede.

Sarà invece il caso di approfondire quali sono le alternative praticabili per un'azienda e un consumatore che è consapevole dei limiti del modello green. Non siamo tutti Chouinard ma certamente abbiamo voglia di fare del nostro meglio per partecipare alla transizione come imprenditori, come consumatori e come cittadini.

Il ruolo differente di aziende e consumatori e le alternative al green

Secondo l'ultimo report dell'IPCC le buone pratiche di mitigazione della crisi climatica basate sulla gestione della domanda, e che quindi non prevedono nuove tecnologie o modifica delle filiere produttive, sono di tre tipi: Avoid, Shift e Improve. Tra queste buone pratiche quelle con maggiore potenziale sono: evitare viaggi aerei a lunga percorrenza (Avoid), cambiare dieta a favore di una dieta a minore consumo di carne e latticini (Shift), migliorare l'efficienza energetica delle nostre abitazioni (Improve). Da nessuna parte nel report si cita il green marketing o l'incentivo ad acquistare prodotti che si definiscono meno impattanti come una delle soluzioni più interessanti. Se il green marketing viene citato nel report IPCC è solo per criticarne i tentativi di greenwashing. Tra i paper in bibliografia invece spicca una review del 2020 che indica le potenzialità massime dell'acquisto green (quindi di prodotti che si definiscono tali per risparmio di risorse ed energia) attorno all'1,5% -2% delle emissioni europee.

Se un'azienda o un'istituzione volesse investire nella mitigazione climatica potrebbe lavorare per attivare questo tipo di processi che lungi dall'essere nella disponibilità dei singoli individui sono il frutto di un cambiamento sistemico in cui il driver è la governance politica per avviare un'azione coordinata degli elementi chiave: le infrastrutture, le imprese, la cultura e i cittadini. (vedi Report IPCC AR6 WGIII Chapter 5, pag 5-67 e sgg). Partecipare alla transizione per i cittadini è quindi possibile se e solo se riusciamo ad attivare un cambiamento sistemico: condiviso, concertato, equo.

Le soluzioni rigenerative

Sul fronte delle soluzioni rigenerative che incidono sui metodi produttivi ma senza produrre esternalità negative, uno degli esempi migliori è il Carbon Farming a cui l'EU affida il compito di ridurre e sequestrare una parte consistente delle emissioni agricole per arrivare alla neutralità del settore già entro il 2035. Stanno nascendo diversi progetti di carbon farming in giro per il mondo dove con 10-20 euro la tonnellata si possono acquistare crediti volontari di carbonio sequestrati attraverso buone pratiche agricole che rigenerano anche il suolo.

Si tratta infatti di una pratica che attiva il ciclo naturale del carbonio e si differenzia sostanzialmente dalle nuove tecnologie sviluppate per catturare la CO2 dall'atmosfera. Pensiamo ad esempio ad un distretto produttivo che vuole fare sistema per raggiungere la neutralità climatica: da una parte aiuta le imprese agricole a fare carbon farming, dall'altra incentiva le aziende zootecniche a mitigare le emissioni e quelle che non riusciranno a ridurre potranno compensarle sul territorio comprando i crediti di carbonio dagli agricoltori. I prodotti di quel distretto saranno non solo carbon neutral ma avranno anche migliorato il territorio e rigenerato il suolo. I consumatori potranno scegliere di ridurre la loro impronta o comprando i prodotti o comprando direttamente i crediti volontari di carbonio generati dal carbon farming degli agricoltori del proprio territorio. Un modello che promette di essere davvero sistemico e in cui tutti gli attori coinvolti migliorano le loro posizioni di partenza.

Se confrontiamo questa concreta possibilità con lo standard dell'acquisto green appare più evidente anche il motivo della decisione di Chouinard come imprenditore ma anche come cittadino. Nei prodotti che si dicono sostenibili il costo per tonnellata delle emissioni risparmiate non viene quasi mai dichiarato. E per lo più sappiamo che si tratta di minime riduzioni di impronta il cui costo grava spesso sui consumatori più che sulle imprese. Da una parte abbiamo scarsa trasparenza sia sugli impatti che sui costi di un prodotto green, dall'altra invece c'è una precisa quantificazione del costo di una tonnellata di CO2eq e una rigenerazione territoriale: cosa scegliereste?

In conclusione.

La decisione di Chouinard è un turning point nel mondo green: da oggi siamo tutti più consapevoli dei limiti di questo modello e del fatto che ci sono altre modalità per partecipare alla transizione in modo attivo, più efficienti e più efficaci dell'acquisto o della produzione green.

Le normative in preparazione a livello europeo come la proposta di direttiva dell'aprile 2022 "Politica dei consumatori - Rafforzare il ruolo dei consumatori nella transizione verde" che anticipa la decisione della corte danese sul divieto di green claim senza una misura associata, sono un ulteriore passo in direzione di una maggiore consapevolezza dei limiti e delle reali potenzialità del modello di consumo green, una consapevolezza che significa maggiori opportunità per i cittadini di partecipare alla transizione ecologica.

Perché essere sostenibili non è una scelta green, è una scelta consapevole

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